Artiglierie a polvere nera nel XIV-XV secolo

Dovizia di documentazione sulle armi da fuoco la troviamo a partire dal 1600, anche se per le armi individuali già nel 1500 si hanno numerose documentazioni; le fonti documentarie dal 1300 e 1400 sono costituite da affreschi, dipinti, reperti di canne, mascoli; scarseggiano i reperti di affusti originali a causa del naturale decadimento del legno nel corso dei secoli e molti affusti attualmente visibili in aree museali italiane e straniere sono ricostruzioni ottocentesche. La Storia delle Armi da Fuoco, specialmente Artiglierie, è storia della tecnologia dei metalli, storia della balistica e della chimica e credo di poter affermare che è stata l’evoluzione delle scienze precitate che ha poi condizionato i campi di battaglia e non viceversa come purtroppo avviene dall’avvento dell’età moderna.
Cito l’inizio “ufficiale” dell’ uso delle Artellerie a polvere nera rivedendo una miniatura del 1326 di Walter de Milimete in cui è raffigurato uno strano vaso vincolato ad un banco ed in procinto di “sparare” una freccia di grosse dimensioni.

Trattato di Walter de Milemete, 1326

Nello stesso periodo troviamo una deliberazione, sempre del 1326, del Comune di Firenze che ordina polvere e palle per i propri cannoni: non ci è però dato sapere come questi erano costruiti nella realtà.

I due secoli oggetto di questa breve riflessione furono secoli di esperimenti e tentativi che coinvolsero la scelta dei materiali ed il tipo delle armi: a canna singola o a più canne (ribadocchini), con affusto costruito sul campo di battaglia e fatto di pezzi di trave assemblati alla meglio, con affusto dotato di ruote, con dispositivi di alzo e senza, da assedio, a mano, da campagna, a retrocarica per la carica di lancio e avancarica per la palla, ad avancarica pura, con canna assicurata all’affusto da catene, cordami, staffe di ferro, con canna in cuoio rinforzato da bandelle di rame, bronzo gettato, verghe di ferro sottoposte a bollitura per l’assemblaggio e forse altri tentativi di cui, almeno io, non sono a conoscenza.

Le scelte del sistema di caricamento dei pezzi (avancarica pura, avancarica mista, retrocarica) furono frutto dei metodi di lavorazione e assemblaggio o fusione delle canne; i mascoli furono gli antesignani della moderna retrocarica, ma non assicuravano sufficiente tenuta dei gas sviluppati in camera di scoppio (non esistevano ancora le tecnologie che portarono poi alle “guarnizioni di tenuta degli otturatori”), le culatte da avancarica erano chiuse con tappi in ferro avvitati alla parte posteriore della camera di scoppio e ciò comportava la esecuzione difficoltosa di filettature a tenuta: l’esecuzione di canne per fusione di ferro portava alla nascita di canne spesso in ghisa e quindi relativamente fragili;  tutt’ora sono ben conservate bocche da fuoco di bombardelle o mortai in ghisa.

Fu alla fine del 1400 che la evoluzione della tecnologia della preparazione e fusione del bronzo rese possibile la “gettata in terra” di canne in bronzo già calibrate e con culatte di spessori e solidità adeguate alle potenze di scoppio per i vari tipi di cariche di lancio per proiettili in ferro o pietra:  Al Mastro de Artelleria non restava altro che rettificare l’anima del pezzo tornendola e predisporre il focone nella posizione dovuta.

Anche per il compito tattico da riservare alle armi da fuoco i due secoli presi in considerazione furono un susseguirsi di tentativi; nel 1300 ci furono momenti in cui sembrava che il compito tattico delle armi da fuoco fosse quello di creare scompiglio nelle schiere nemiche con il frastuono e le fiamme emesse dalle bocche, poi si cominciò a considerare il tiro di artiglieria per fare brecce nelle mura e per far rotolare le palle sparate sul terreno a falciare le gambe dei nemici, infine si concretizzò l’idea che quanto lanciato dalla bocca da fuoco doveva colpire direttamente il o i nemici a seconda del tipo di arma da fuoco usata.

Scoppiettieri e balestrieri facevano parte degli organici delle artiglierie, i pezzi da assedio e campagna erano affidati per uso e manutenzione ai Mastri d’Artiglieria e ai loro lavoranti e famigli che li avevano fabbricati e che erano svincolati dall’Esercito vero e proprio.
Calibri e affusti erano a piacimento dei vari Mastri d’Artiglieria costruttori e le varie tipologie dei pezzi erano generalmente caratterizzate e riconosciute da nomi di rettili (serpentina, aspide, colubrina, sagro) o di uccelli da preda (falcone,falconetto) o con nomi che alludevano alla forma, dimensione o utilizzazione (bombarda, bombardella,cannone, mezzo-cannone) in base alle misure delle canne ed al peso della palla da sparare e, generalmente, ogni Città o Stato adottava proprie denominazioni a volte anche discordanti con le denominazioni di Artiglierie simili di altri Stati o Città.

Le bocche da fuoco potevano lanciare palle di ferro o di pietra: i pezzi atti al lancio di palle di pietra erano detti “petrieri” ed avevano calibri e modelli di canne per l’assedio e il campo.
Unico e naturale punto in comune: l’utilizzazione della polvere nera come carica di lancio e innesco anche se ogni fabbricante usava le proprie percentuali di salnitro, zolfo, carbone per accelerare, ritardare, potenziare o rendere più o meno stabile il composto.
In ogni caso sul campo di battaglia il salnitro era portato in recipiente separato e la polvere dei pezzi d’artiglieria era “assemblata” nell’immediata precedenza del combattimento per evitare esplosioni fortuite di una polvere che, per le modalità di preparazione e trasporto dell’epoca, era piuttosto soggetta ad impreviste accensioni. Le armi da fuoco portatili (schioppetti, passavolanti, cannoni a mano, archibugi…) ebbero una evoluzione che, in alcuni casi, portò i fabbricanti a copiare, per le calciature, i tenieri delle balestre, in altri si preferì prolungare la canna da fuoco con un lungo bastone ed una aletta nella parte bassa anteriore per agganciarla al muro o alla palizzata di difesa ed annullare così l’effetto del rinculo.

Le calciature delle armi individuali raramente permettevano la imbracciatura dell’arma come si usò dal 1500 in avanti: in campo aperto si sparava tenendo l’arma al fianco, anche agli inizi del 1500, vedi gli Arazzi raffiguranti la Battaglia di Pavia, anche perché i sistemi di innesco erano tali che era molto facile prendersi negli occhi la vampa dell’accensione.

L’evoluzione delle calciature delle armi lunghe individuali è conseguenza anche della modifica dei sistemi di innesco della carica di lancio.
Nella culatta della canna si trovava la camera di scoppio per la carica di lancio, detta camera comunicava con l’esterno tramite un foro, detto “focone”, inizialmente situato nella parte superiore della canna anche nelle armi individuali, in cui veniva messa la carica di innesco che, incendiata in qualche modo, faceva esplodere la carica di lancio.

Il problema dell’accensione dell’innesco fu dapprima risolto con un ferro rovente accostato al focone, ma ciò comportava l’uso di bracieri sempre accesi vicino alle armi; nel tempo si giunse all’uso della miccia, ossia una corda bollita in una soluzione di acqua e salnitro, che si manteneva accesa bruciando lentamente senza fiamma e restando incandescente e ad elevata temperatura in modo da incendiare la polvere di innesco.
Solo nella seconda metà del 1400 si cominciarono a costruire dei meccanismi che tramite una leva simile allo sgancio di una balestra permettevano di accostare la miccia, fissata ad un braccio a serpentina, al focone.

Fino a quel momento il servente dell’arma accostava la miccia al focone con la mano destra e compiva tutte le operazioni di caricamento tenendo la miccia accesa attorcigliata al braccio. Credo che non dovessero mancare esplosioni fortuite durante la ricarica dell’arma con le logiche conseguenze per il servente.

Nei pezzi di artiglieria, finché durò il sistema dell’avancarica, si seguitò ad incendiare l’innesco con miccia a mano o montata su un’asta (buttafuoco). Forse nel 1800 alcune artiglierie navali utilizzarono il sistema della batteria a martelletto e capsula sul focone, ma il mio esperto non ritiene di darmene conferma.
Il problema della difficoltà di accensione dell’innesco e della contemporanea necessità di mirare in qualche modo al bersaglio portarono spesso a fare dell’arma da fuoco individuale un’arma servita da due uomini: uno caricava e imbracciava, l’altro cercava, standogli alle spalle, di fare allineare il primo sul bersaglio e faceva fuoco accostando la miccia al focone. Suppongo che durante tali operazioni i due indossassero celate con ventaglia abbassata per proteggersi la faccia.

Nell’ultimo quarto del 1400 si iniziò la stabilizzazione di alcuni parametri nella costruzione e uso delle armi da fuoco.
Per le artiglierie, pur persistendo la differenziazione tra cannoni petrieri e non, si inizia la generalizzazione della produzione di canne in bronzo gettato, anche perché si era sperimentato sul campo che una canna di ferro se scoppia produce un effetto shrapnel e massacra truppe e serventi “amici”, mentre il bronzo si gonfia e si spacca senza lanciare schegge.
Anche se le Artiglierie a mascolo e canne in ferro furono utilizzate per ulteriori periodi di decine di anni, senz’altro fino alla seconda metà del 1500, ciò comportò anche la repentina diminuzione di produzione dei cannoni a mascolo a caricamento misto e mascolo e canna in ferro.

Inizia la classificazione dei pezzi in un numero limitato di “specialità di tiro”; i Bombardieri (serventi ai pezzi) divengono una componente specializzata dell’esercito in campo e come tale debbono avere istruzione specifica.

Si iniziano a mettere i mirini sulle volate e tacche di mira sulle culatte per la mira diretta; si generalizza il metodo del meccanismo di alzo dei pezzi e si inizia lo studio delle traiettorie dei proiettili con le varie posizioni di alzo(è del 1600 ”l’invenzione” del’Archipendolo -asta con settore graduato e filo a piombo che sul settore individua i “punti” o “mezzi punti” di elevazione – infilata nella bocca del pezzo, inizia insomma la vita propria della specialità d’arma denominata Artiglieria.

Le armi individuali sono ora caratterizzate da mirini di volata per allineare il bersaglio, le canne sono più leggere e robuste, fatte in ferro ben lavorato con l’anima tornita, le calciature permettono di imbracciare per allineare occhio – mirini -bersaglio.
Da qui i calci ribassati rispetto al supporto della canna e il meccanismo con piastrina a protezione degli occhi e congegno di scatto per portare la miccia sul focone, insomma tutto un insieme di accorgimenti tecnici che prefigurano già la leziosità, ma anche la efficienza e bellezza delle armi dei secoli successivi.

Di Bruno di Sergio de’Giannoni, Mastro de Artelleria.

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Rossella Scordato